Appalto: Nel caso di recesso dell’appaltatore, il committente ha diritto al risarcimento dei danni.

Avvocato Alberto Crisi

Invero, in tema di appalto, qualora il committente eserciti il diritto unilaterale di recesso ex art. 1671 c.c., non è preclusa la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati e il risarcimento dei danni subiti per condotte di inadempimento verificatesi in corso d’opera e addebitabili all’appaltatore e, in tale evenienza, la contestazione di difformità e vizi, in ordine alla parte di opera eseguita, non ricade nella disciplina della garanzia per i vizi, che esige necessariamente il totale compimento dell’opera.

Sul punto, la giurisprudenza più recente ha affermato che il diritto potestativo riconosciuto al committente di risolvere unilateralmente l’appalto può essere esercitato ad nutum in qualunque momento posteriore alla conclusione del contratto (purché prima dell’ultimazione dell’opera) e può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti di inadempimento.

Ne consegue che, in caso di recesso, il contratto si scioglie per l’iniziativa unilaterale dell’appaltante, senza necessità di indagini sull’importanza e sulla gravità dell’inadempimento, le quali sono rilevanti soltanto quando il committente abbia preteso anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso.

Nondimeno, per altro verso, benché l’esercizio del recesso impedisca al committente di invocare, in seconda battuta, la risoluzione per inadempimento dell’appalto, la circostanza che l’appaltante si sia avvalso dello ius poenitendi non impedisce di esercitare, in favore dello stesso appaltante, il diritto alla restituzione degli acconti versati e al risarcimento dei danni che sono derivati dall’inadempimento dell’assuntore.

La formulazione di un’istanza di restituzione dell’acconto versato e la riserva di chiedere spese e danni non sono, infatti, incompatibili con la domanda di recesso.

Più nel dettaglio ha osservato che dei danni subiti dall’appaltante per pregresse inadempienze dell’appaltatore si può tenere conto in sede di liquidazione dell’indennizzo spettante all’assuntore, all’esito del recesso esercitato dall’appaltante. In specie, il committente può fare valere tali danni allo scopo di ottenere una proporzionale riduzione dell’indennizzo da questi dovuto, anche se li conosceva al momento del recesso.

Aderendo a tale impostazione, si è sostenuto che l’esercizio del diritto di recesso riservato al committente non priva il recedente del diritto di richiedere il risarcimento per l’inadempimento in cui l’appaltatore sia già incorso al momento del recesso, anche ove esso sia imputabile a difformità o vizi dell’opera.

Sicché il rigetto definitivo della domanda di risoluzione, all’esito dell’accertamento dell’intervenuto scioglimento dell’appalto in conseguenza dell’esercizio del diritto potestativo di recesso ex art. 1671 c.c. , non vieta affatto al committente di far valere le correlate domande restitutorie e risarcitorie, in ragione del contestato inadempimento dell’appaltatore. E, in aggiunta, la proponibilità della domanda di risarcimento danni da parte del committente, in caso di inadempimento dell’appaltatore in corso d’opera, non è ostacolata dal mancato esperimento dello speciale rimedio previsto dall’art. 1662, secondo comma, c.c., in ordine alle obbligazioni dell’appaltatore in corso di attuazione. Tale norma, infatti, prevede non già un onere, ma una facoltà, il cui esercizio è esclusivamente finalizzato a provocare l’automatica risoluzione del rapporto conseguente all’inutile decorso del termine fissato con la diffida a regolarizzare le opere già eseguite.

Ne discende che il mancato esercizio di tale facoltà non impedisce, una volta operato il recesso, la proposizione della domanda risarcitoria per l’inadempimento già verificatosi.

E’ stato altresì rilevato che tali domande restitutorie e risarcitorie non sottostanno alla disciplina speciale sulla garanzia per i vizi e al conseguente regime decadenziale e prescrizionale ex art. 1667 c.c.

Infatti, la responsabilità speciale per difformità o vizi, come disciplinata dal legislatore, non è invocabile nel caso di mancata ultimazione dei lavori, anche se l’opera, per la parte eseguita, risulti difforme o viziata, o di rifiuto della consegna o di ritardo nella consegna rispetto al termine pattuito. In base a tale ricostruzione, nel caso in cui l’appaltatore non abbia portato a termine l’esecuzione dell’opera commissionata, restando inadempiente all’obbligazione assunta con il contratto, la disciplina applicabile nei suoi confronti è quella generale in materia di inadempimento contrattuale, mentre la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 cc. trova applicazione nella diversa ipotesi in cui l’opera sia stata portata a termine, ma presenti dei difetti.

Da ciò deriva che, anche ove il rapporto si sia sciolto sulla scorta dello ius poenitendi attuato dal committente, la pretesa di quest’ultimo di ottenere la riparazione dei danni conseguenti a fatti di inadempimento addebitati all’assuntore e accaduti in corso d’opera, prima che fosse fatto valere il recesso, ricade nella cornice normativa generale di cui all’art. 1452 c.c., sicché non trova applicazione la disciplina speciale sulla garanzia per le difformità e i vizi, anche con riferimento ai termini di decadenza e prescrizione.

Ed invero, ontologicamente, l’integrativa garanzia speciale per le difformità e i vizi della “opera” appaltata postula la definitività della distonia rispetto alle prescrizioni pattuite o alle regole tecniche cui essa avrebbe dovuto conformarsi, ossia la realizzazione e consegna dell’opera commissionata, mentre, a fronte di “difformità” o “vizi” rilevati in corso d’opera, quali mere lacune in procedendo –ossia non ancora definitive e, quindi, astrattamente sanabili nell’ipotetico prosieguo dell’esecuzione–, il committente può avvalersi delle facoltà di cui all’art. 1662, secondo comma, c.c. e, ove si cristallizzi la definitiva interruzione dell’appalto, indipendentemente dall’imputazione al committente o all’assuntore di detta interruzione, può essere invocata la tutela riparatoria secondo il regime ordinario.

Tanto perché, ove l’appaltatore non proceda secondo le prescrizioni contrattuali e le regole dell’arte, a fronte di un’opera ancora in itinere e di lavori ancora in progress, non può essere effettuata, in quel momento storico, alcuna prognosi sul completamento e sulla perfetta realizzazione alla scadenza contrattuale, salvo che, a causa dell’inadempimento dell’appaltatore, il compimento dell’appalto venga ritenuto irrimediabilmente compromesso e, dunque, siano integrati irregolarità o inconvenienti in corso d’opera ai quali l’artefice non possa più rimediare, attesa la loro irreparabilità e definitività, potendo, in tal caso, invocarsi, non già il regime della garanzia speciale per le difformità e i vizi, ma il regime ordinario della risoluzione per inadempimento.

Quindi, venuto meno il rapporto fiduciario tra le parti dell’appalto, per effetto dell’esercizio del diritto potestativo di recesso dell’appaltante, nessuna equiparazione può essere disposta tra completamento dell’opera e definitiva interruzione dei lavori, cui non si applica la disciplina speciale sulla garanzia per i vizi in ordine agli inadempimenti contestati dal committente per fatti verificatisi prima dell’attuazione dello ius poenitendi.

Per effetto dei principi esposti, il Giudice deve quindi valutare l’ammissibilità e la rilevanza delle domande di ripetizione e di riparazione, indipendentemente dal rigetto della pretesa di risoluzione e fuori dal contesto della garanzia speciale per le difformità e i vizi dell’opera appaltata.

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